An education - Lone Scherfig

An education - Lone Scherfig - 2009 - 100'

Nick Hornby scrive la sua prima sceneggiatura originale, la ambienta nella Londra prima del '68 e trova un impossibile e consolatorio lieto fine. Lone Scherfig, dopo Italiano per principianti, ha l'occasione di lavorare con un budget più consistente. Non rinnega del tutto il Dogma, o meglio, non dimentica quel periodo, e stilisticamente confeziona un buon film, senza osare niente di più. Il risultato è, forse giustamente, il Sundance. E a me viene la tristezza. Perché questo che poteva essere un onesto film, poi fa pensare a Juno, che era una porcata assoluta. Insomma, un'occasione sprecata. Come spesso capita, un'occasione sprecata targata Sundance, i film indipendenti dalla logica e dal piacere.


Tra i punti di forza del film c'è una consapevole ricerca dell'asciuttezza formale; l'unica breve sequenza in cui si nota un movimento di macchina inutile è quella in cui la protagonista ascolta la Greco distesa in camera sua. In quel caso Scherfig ha tentato il movimento da anni '60, senza raggiungere nessun altro scopo se non quello di farlo notare. Tutto il resto del film però è molto contenuto, con uno stile molto da film indipendente inglese, che non sarà particolarmente originale, ma si adatta bene alla storia. Tutto è molto curato; non è un film dal budget stratosferico ma i soldi sono stati spesi bene. E tutto funziona da un punto di vista formale, dai costumi alle scenografie. Londra prima del '68 è molto credibile, quantomeno per chi, come me, a Londra negli anni '60 non c'è mai stato. La Scherfig non ha la carica eversiva dei grandi, ma è una che di cinema ne mastica molto e in questo film si nota. 


L'idea di far interpretare i due ruoli da protagonista alle controfigure di Jack Lemmon (e Peter Sarsgaard è identico, impressionante) e Audrey Hepburn era rischiosa e invece funziona; forse è l'idea di regia più interessante del film perché rimanda a un universo conosciuto, caricandolo di una prospettiva diversa, più comprensibile in Mulligan/Hepburn, più originale in Sarsgaard/Lemmon. 
Carey Mulligan ha avuto per questa interpretazione qualche premio, molti elogi e in ogni caso un discreto trampolino di lancio; io ho preferito Sarsgaard, Rosamund Pike e Dominic Cooper, che hanno due ruoli da comprimari affrontati con decisione e senza mai andare sopra le righe. Lo stesso non si può dire di Alfred Molina, sempre più adagiato sulle espressioni della sua pancia. 
Fatta eccezione per Molina, veramente pessimo (e dal momento che della direzione degli attori bisogna dare merito alla regista, va detto che il cast per il resto è perfetto e che Scherfig dimostra mestiere anche in questo caso), sembrerebbe quindi un ottimo film, non un capolavoro, ma insomma un film se non altro sopra la media. Il problema è proprio la scrittura e cioè la star annunciata di questo film mancato, Nick Hornby. Alla sua prima sceneggiatura anche se non originale, Hornby manca di profondità politica e non sono sufficienti le descrizioni d'ambiente se dietro non c'è un pensiero in grado di interpretare la realtà. Da diversi anni l'assunzione di responsabilità autoriale, culturale, politica, viene vista e vissuta come un complesso di arroganza, ingiustificata ambizione, anacronismo culturale. Io regista, io scrittore, io autore non dico nulla di quello che penso, mi limito a raccontare, descrivendola, una porzione di realtà, contribuendo a legittimare l'idea che la descrizione da sola basti a connotare la realtà raccontata del senso che io le attribuisco. Questa concezione dell'opera d'arte, in cui non si esprimono giudizi, per la quale in un film a parlare sono le immagini e non l'autore di quelle immagini è un passo indietro culturale di cinquant'anni. Le immagini parlano se gli si dà qualcosa da dire, altrimenti sono solo pellicola impressionata. Ma non è vero neppure questo, perché non dire niente non è possibile, e infatti Hornby, che dichiara di aver voluto solo descrivere la Londra, l'Inghilterra del 1961, in realtà esprime il trionfo dei valori borghesi che il '68 non è riuscito purtroppo a scardinare e sconvolgere del tutto. 


Non che il film, né nessuna delle sue parti, ad eccezione di Molina, che fa della recitazione un atto osceno, sia disonesto, non dico questo. Non è un film reazionario. Eppure lascia quel sapore in bocca. Ci ho riflettuto a lungo, cercando di mettere da parte i pregiudizi negativi verso il Sundance e quelli positivi verso Hornby, che non sarà un genio della letteratura, ma in adolescenza mi ha salvato dalle centinaia di letture peggiori che invadono le librerie. Forse il film cade e si perde perché dà per scontato storicamente il '68, lo assume come futuro inevitabile, e come conoscenza obbligatoria. Allora Jack Lemmon Sarsgaard può rappresentarlo in tutta la sua superficiale doppiezza senza rovinare nemmeno un fiore in un cannone, nemmeno un accordo di chitarra. Hepburn Mulligan torna ai valori borghesi, si salva, Oxford è ancora il miglior posto possibile. Arriverà il '68, noi lo sappiamo e lei ancora no. Ma Oxford la salverà comunque. 
Hornby ha scritto la sceneggiatura lavorando sulle memorie di una giornalista inglese; ciò nonostante la scrittura è inequivocabilmente sua, i temi sono gli stessi dei suoi romanzi. Lui stesso, in qualche intervista, se ne trovano diverse cercando in internet, conferma che il materiale di partenza gli è stato immediatamente familiare e che diversamente non avrebbe iniziato a scrivere. E se si pensa anche solo alla trilogia di Barrytown, cioè ai libri che hanno fatto diventare Hornby un caso se non letterario, quantomeno editoriale, i valori espressi non sono poi così distanti da quelli di An education. 
Un film così, tecnicamente fatto molto bene, con un paio di ottimi interpreti, una regia sicura, ha ovviamente reputazione da film indipendente, ha vinto, se non ricordo male, il Sundance, è stato candidato agli Oscar, in un trionfo di borghesia auto compiaciuta delle proprie istituzioni dannose, noiose e tetre. E a me dispiace che Hornby abbia preso parte alla scrittura di un '68 con i panni di Lemmon che scambia la libertà con la superficialità morale. C'è una tendenza costante e fastidiosissima, anche nelle produzioni culturali considerate di sinistra, a considerare il '68 come un fallimento, perché il mondo è ancora un posto orribile e senza senso. Senza il '68 sarebbe stato peggiore. Ce ne vorrebbe uno ogni quattro anni di '68, come le Olimpiadi. 


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