Manhattan - Woody Allen

Manhattan - Woody Allen - 1979 - 96'

Su Manhattan è stato detto tutto; comunque la pensiate è un imperdibile della storia del cinema. Anche chi detesta Woody Allen deve almeno provare a vedere Manhattan, perché se è vero che dentro c'è praticamente tutto Allen, e c'è eccessivamente, molto più che in altri film, è anche vero che c'è dentro un sistema di pensiero che sarebbe stato dominante e quasi assolutistico nei quindici, vent'anni successivi. E c'è anche una padronanza tecnica sbalorditiva, purtroppo sottovalutata a favore della prepotenza dei dialoghi alleniani.
Qui c'è un'analisi abbastanza approfondita del film che ho trovato durante la solita ricerca. Qui invece una recensione breve ma interessante presa da Gli Spietati.

La fotografia è di Gordon Willis, il direttore della fotografia di diversi altri film di Woody Allen, ma anche della saga de Il Padrino. Willis, in Manhattan - e pensate a quanto è diverso da Il Padrino parte seconda, per dire - è in grado di essere profondamente, completamente americano adottando punti di vista da alieno. Willis sembra alla scoperta di Manhattan, e dell'America; come se non l'avesse mai vista. Come se fosse il primo a studiarne le luci. Manhattan, con la stessa trama, gli stessi dialoghi, gli stessi attori e un'altra fotografia sarebbe un film del tutto diverso, senza molta della potenza che gli si riconosce già dopo pochissimi minuti.


Manhattan, che a tutti gli effetti è una commedia circolare, costruita con intrecci di scrittura complessi ma visibili e con le partecipazioni stratificate dei linguaggi altrettanto dichiarate - musica, scrittura, immagine già dall'incipit rivelano il percorso che seguiranno durante tutto il film -, non ha però i tempi della commedia, né gli spazi della commedia. I tempi, la costruzione delle inquadrature, i movimenti di macchina, di nuovo la fotografia, sono quelli propri di un film drammatico. Allen riesce in Manhattan nell'impresa, tipica per lui, di elevarsi prepotentemente a dramma, senza avere i contenuti del dramma. E non avendo la realtà a supporto, perché nel film non succede assolutamente nulla di drammatico, ci riesce con lo stile e la tecnica. La forza di Manhattan è anche quella di inserirsi nella tradizione narrativa americana che mitologizza se stessa, che fa storia e leggenda auto-costruendosi.


Evidentemente c'è anche Allen, che ancora riesce a presentarsi onestamente, quindi come il vigliacco maschilista, rancoroso, ossessivo che si riconosce essere. E poi i soliti riferimenti: la cultura ebraica, un certo ambiente newyorkese (e sarebbe bello prima o poi confrontare la New York di Allen con quella, per dire, di Scorsese, o di Spike Lee), la psicanalisi, Bergman, inteso come Ingmar (e quanto è bergmaniana la Hemingway? C'è qualcosa in quel ritorno da lei che è molto di più di un ritorno da una donna giovane).
Recensione brevissima, ma Manhattan bisogna vederlo. E poi ci sono stati scritti su dei libri; è uno di quei film per cui può valere la pena approfondire. L'utima cosa, che invece non ho letto da nessuna parte. Manhattan è anche un film sulla velocità, sull'azione, sul sentimento americano del fare, del pentirsi e del rifare; un film sull'accettazione forzata, dichiarata e in-consapevole - "New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata" -, di questa velocità. In questo, forse soprattutto in questo, è un film mitologico, perché è capace di porre come nuovo il tema dell'alienazione e del destino, addirittura di anticipare i tempi con un sentimento vecchio come l'uomo.
Approfitto dell'abbondanza di foto per metterne ancora qualcuna.





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